Proseguiamo la nostra chiacchierata filosofica con Daniele Carbini, noto pipemaker di Tempio Pausania.
Se siete curiosi e non l’avete ancora fatto, vi invitiamo a leggere gli altri due articoli, pubblicati qualche giorno fa, e a proseguire con questo nuovo articolo. Buona lettura!

Daniele, dove si acquistano le tue pipe?
Le mie pipe si ritrovano in due rivendite fisiche di Tempio Pausania e in un importante negozio online, che lavora nel settore da più di vent’anni, ha un’ottantina di pipemakers, italiani e stranieri e vende migliaia di pipe stabilmente in tutto il mondo. Poi c’è una nuova collaborazione con un sito che vende oggetti di artigianato, arte e design. Chi cura la piattaforma ha pensato che anche la pipa debba starci dentro in quanto oggetto di design e arte.

Quando ti distacchi dalle tue opere che sensazioni provi?
Beh questa è una cosa che ho imparato da molto prima di mettermi a fare pipe l’ho imparato con i quadri e gli scritti. Non mi piace quello che realizzo, lo trovo se non brutto perlomeno discutibile ma c’è un momento in cui dico che basta così, è un figlio incerto che deve fare la sua strada.

Le opere, una volta gettate nel mondo non sono più parte di noi, ma del senso di quel mondo a cui anche noi apparteniamo.
Sì esatto, a quel punto lì sono loro da soli che devono comunicare con altri e hanno il gravoso compito di trasmettere emozioni e visioni del mondo, ma non verità. In niente di quello che realizzo ho la presunzione di raccontare qualche verità. A me piace raccontare storie, trasmettere emozioni, per quel poco che riesco.

“Figli incerti” ogni padre e ogni madre dovrebbe pensare questo dei propri figli, quando loro iniziano ad attraversare il mondo.
È un atto di coraggio e generosità. Eppure oggi più che mai abbiamo genitori ossessionati dalla protezione asfissiante per non far accadere ai figli quanto è accaduto a loro. Un atto d’amore, non c’è dubbio, un disastro dal punto di vista formativo. Là fuori il mondo non è benevolo, c’è un esercito di iene affamate, non avranno scrupoli a farti a pezzi. Le difficoltà, gli ostacoli, le mazzate, le delusioni, i fallimenti, sono tutti passi indesiderati ma necessari alla formazione.

Dentro una campana di vetro non si cresce, ci si secca…
Aiutare i figli è doveroso, sostituirsi alle loro necessarie esperienze è negargli la vita. Un fallimento.
Un buon maestro non fa le cose per te, ti spiega come farle, come le ha fatte, poi tocca a te.
Io sono una collezione di fallimenti, e ne sono geloso, mi ritengo un privilegiato per questo.

Il maestro è un compagno di viaggio, lo stimolo costante. Alinetu, cosa significa?
Alinetu è il nome della campagna di famiglia, lo è da quanto ne ho memoria. Da lì arrivo io, i miei genitori, i miei nonni, i miei bisnonni e ancora a ritroso. In più è una terra ricchissima di radica, la materia prima per eccellenza con cui si realizzano le pipe.
Inoltre Alinetu è il nome dell’ultimo monte della catena montuosa di Aggius, suppongo che l’origine del nome venga da lì. Licia, una mia amica, di recente ha fatto una ricerca: pare che l’origine linguistica sia s’Alinu, ovvero terra ricca di Ontani. Beh insomma c’è anche un po’ di mistero, il che non guasta.

Siamo le nostre radici…
Siamo dediti al movimento e allo scambio, è uno stimolo irrinunciabile, ma al tempo stesso sentiamo fortissimo il richiamo di casa. È come se quel pezzo di terra avesse un suono particolare. Come se la sua storia fosse lì, sempre presente.

La tua storia questo lo racconta bene. Sei rientrato in Sardegna.
Sono sempre stato di una visione aperta: da qui per aprirsi agli altri e ritornare più ricchi, per rendere questo posto qualcosa di più grande e aperto, detesto il senso della chiusura. Non siamo né migliori né peggiori, siamo differenze e nello scambio e nella condivisione, nella contaminazione, c’è il germe della bellezza e della ricchezza umana. Questo è insito anche nella coppia, nella relazione. Accogliamo il diverso dentro noi stessi, ci contaminiamo dell’altro, non bastiamo a noi stessi e viceversa, nella piena reciprocità.

Io sono più propensa alle similitudini nella coppia.
Si trovano punti di contatto, comuni, sono i segnali dentro una mappa che ci permettono l’esplorazione, che ci danno un senso di fiducia nel percorso.
Poi è tutto diverso. Il dramma si ha quando si usano gli altri come proiezione di sé, come un mezzo di esaltazione del proprio ego, funzionali all’esaltazione centrica dell’individuo. Succede spesso, oggi più che mai, gli altri sono utili allo scopo. È drammatico, è l’evidenza della solitudine della società contemporanea.

Una società parcellizzata, disgregata, “liquida” e le mascherine e il distanziamento sembrano essere l’apice del delirio d’onnipotenza (ovviamente sono necessari).
Un anno fa, esattamente un anno fa, si era percepito di essere nella nascita di un Anno Zero, che niente sarebbe stato più come prima. Poteva e sembrava l’occasione per riflettere e cambiare approccio. Invece è successo il contrario. Se vediamo la società nell’ottica dei grandi numeri allora l’umano ha tirato fuori il peggio di sé, l’esaltazione dei suoi vizi prima negati con ipocrisia. Abbiamo visto opportunismo, egoismo, menefreghismo e rassegnazione. Eppure un anno zero è morte e nascita al tempo stesso, tutte le possibilità sono in gioco.

Cosa ci salverà?
La bellezza, ma da soli, nel trionfo dell’autodeterminazione dell’individualismo egoista, non si potrà mai realizzare bellezza, nella migliore delle ipotesi da soli si potrà offrire inganno, pensando che gli altri siano utili per prendere al fine di elevare l’immagine di sé. C’è molta disonestà e falsità in questo approccio. L’artista è spesso solitario nel realizzare l’opera, ma essa è sempre il frutto di un contributo collettivo, di stimoli che sono venuti dall’incontro con tutto ciò che è attorno. L’artista per certi versi è un terminale, dove trovano compimento tutta una collezione di elementi, non unicamente umani. Purtroppo veniamo da decenni di educazione alla soddisfazione dell’individuo e dei suoi bisogni personali, gli altri sono utili a questo scopo, c’è una cultura dell’opportunismo sfrenato e in questo agire la bellezza non esiste. C’è invece la menzogna, nemica numero uno della bellezza. In questo il tanto criticato Oriente ci ha offerto una grande lezione: hanno il senso dell’Altro, della collettività.

La bellezza, tutto è circolare, zio Hegel, vedi.
Solo che Hegel si è dimenticato della realtà piena di contraddizioni ed imperfezioni, stonava con il suo perfetto idealismo.

Il finito e le sue imperfezioni sono parte del tutto, della perfezione.
Vero, tutto appare confuso e incerto, ma questo non ci deve autorizzare a voler ripristinare il vecchio, solo perché conosciuto. Il vecchio non funzionava granché bene, anzi faceva abbastanza schifo, e dovevamo aggrapparci continuamente a gocce di splendore qua e là. Si va avanti, non si torna indietro… Diventerebbe troppo lungo parlarne adesso, ma immagina l’idea di uomo, poi vediamo se a quell’idea ne corrisponde almeno uno reale. Non lo troverai. Il problema è che siamo diventati parti di un processo algoritmico.

E qui il discorso si complica! Concludiamo l’intervista?
Non è la solita intervista ad un pipemaker.

Certo, tu nomini sempre Hegel!
E torra con Hegel! Preferisco la disperazione di Wittgenstein. Ah ah ah ah ah ah!

Ma certo, è più rassicurante, o forse più umano.
Ho paura delle soluzioni semplici. Felici. Totalizzanti.

Che, però, rassicurano, sono orizzonte e spavento. Ma abbiamo parlato di pipe?!
Se ti parlo di Nietzsche in verità ti parlo di pipe. E se ti parlo di pipe ti parlo di altro.

Per me suona, va bene così. Un’ultima domanda. Daniele, tre aggettivi per le tue pipe.
Azzzz. Così me la tiro però. Belle seducenti uniche.